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Mobbing e Stalking: differenze, tutele e risarcimento

Ogni erede può chiedere la divisione a prescindere dalla sua quota di competenza.

È una sorta di persecuzione esercitata sul posto di lavoro da superiori o colleghi nei confronti di un individuo, consistente per lo più in piccoli atti o gesti quotidiani diretti ad emarginare, a far violenza psicologica o danno dal punto di vista professionale, ma che può spingersi fino all’aggressione fisica.

In astratto è possibile ricondurre le condotte di mobbing lavorativo nell’alveo degli “atti persecutori” di cui all’art. 612 bis c.p. (Stalking).

La condotta descritta dall’art. 612 bis c.p. può esplicarsi con diverse modalità in qualsiasi ambito sociale, purché diretta a ledere il bene tutelato che è la libertà morale della persona offesa.

La Corte di Cassazione, con sentenza 4 dicembre 2020 n. 27913, in un caso di mobbing perpetrato dai colleghi di pari livello della vittima, ha confermato la responsabilità del datore di lavoro (nel caso in esame, a conoscenza degli episodi persecutori) che aveva omesso di intervenire a tutela del dipendente interessato.

La Corte di Cassazione, con ordinanza 9 giugno 2021, n. 16153, decidendo sulla congruità del risarcimento del danno derivante da mobbing, affronta nuovamente la questione dell’unitarietà del danno non patrimoniale e ribadisce la validità delle cd. “Tabelle di Milano”, che prevedono un’unica voce danno biologico, morale ed esistenziale, con possibilità di personalizzazione se adeguatamente motivata.

Avvocato e dintorni

Il compenso dell’avvocato costituisce la contropartita economica del lavoro che svolge per il cliente, che comprende prestazioni intellettuali quali la rappresentanza del cliente dinanzi a corti, tribunali e altri organi, la redazione di contratti, la consulenza, lo scambio di corrispondenza, le riunioni e i colloqui. L’avvocato dedica buona parte del suo tempo a compiti che non sono visibili, come lo studio del fascicolo, le ricerche di dottrina e giurisprudenza, l’attività di cancelleria e a gestione anche informatica del fascicolo.
L’avvocato è tenuto a indicare, fin dall’inizio del rapporto, il compenso che ritiene congruo per l’attività professionale richiesta e le spese.
Il cliente deve sentirsi libero di chiedere qualsiasi precisazione sul preventivo.
È necessario rimborsare all’avvocato le spese che egli sostiene, quali francobolli, marche da bollo, contributi unificati, spostamenti e quant’altro necessario allo svolgimento dell’attività professionale richiesta.
Qualora non vi provveda direttamente il cliente, dovranno essere rimborsate all’avvocato anche gli importi versati a terzi per le esigenze del caso, quali le spese di consulenti tecnici.

In Italia le tariffe sono state abrogate ed i compensi possono essere determinati liberamente da ogni avvocato, entro i limiti di una giusta proporzione rispetto al tipo di attività professionale, che può essere oggetto di un controllo da parte dell’Ordine degli Avvocati.

Se ritenete che le spese e i compensi che vi vengono richiesti siano eccessivi o se non comprendete una prestazione fatturata, parlate prima con il vostro avvocato.
Il dialogo spesso permette di chiarire le cose e di risolvere le difficoltà.

È la possibilità di essere difesi a spese dello Stato in un giudizio da un avvocato iscritto in apposite liste tenute dall’Ordine degli Avvocati. Di tale beneficio possono godere le persone che hanno risorse insufficienti, cioè al di sotto di un certo reddito previsto dalla legge.

In Italia non esistono al momento avvocati “specializzati”.
È vero, però, che la maggior parte degli avvocati ha spesso uno o più settori giuridici nei quali ha sviluppato nel tempo un’esperienza e una competenza specifica.
Gli avvocati detti «generalisti» praticano indifferentemente qualsiasi materia giuridica.

Successioni, eredità, tutela del patrimonio, incapacità e sostegno

Programmare con calma e in anticipo la sorte dei nostri beni e la loro gestione per il tempo in cui non ci saremo più significa non solo mettere al sicuro il frutto di una vita di lavoro, ma anche evitare di disperderne una buona parte a causa di liti familiari o di imposizioni fiscali più gravose.

Le soluzioni sono molteplici, ma non tutte sono adatte e possono essere applicate ad ogni tipo di patrimonio. Dipende dal tipo di patrimonio di cui si dispone, dalla complessità dei rapporti famigliari, dall’obiettivo che ci si prefigge.Non è necessario, quindi, che vi siano condotte di aggressione fisica.

Gli strumenti giuridici ci sono, ma devono essere “confezionati” ad hoc per il singolo caso da risolvere, in quanto non tutti risultano efficaci per ogni singolo patrimonio e, soprattutto, a volte vi è la necessità di utilizzare ed integrare più di uno strumento. 

Oltre agli strumenti di tutela del patrimonio più conosciuti (polizze assicurative, fondi patrimoniali ecc..), nell’ambito aziendale si può ricorrere al Patto di famiglia, alla Fondazione, ai Fondi immobiliari o ad altre operazioni da effettuare sul capitale.

Nei casi di incapacità, anche temporanea e/o parziale, di tutelare i propri interessi a causa di una menomazione, sia fisica che psichica, l’art. 404 del codice civile prevede la possibilità che la persona venga assistita da un amministratore di sostegno, nominato dal giudice tutelare del luogo di residenza della persona stessa.

Ogni erede può chiedere la divisione a prescindere dalla sua quota di competenza.

Prima di radicare la causa divisoria è tuttavia necessario attivare il procedimento di mediazione (ex D.lgs. 28/2010) presso un Organismo riconosciuto dal Ministero della Giustizia e con l’assistenza di un avvocato.

Si, si tratta della divisione a domanda congiunta prevista dall’art. 791 bis c.p.c.

In tal caso, se non ci sono contestazioni sulle quote di competenza o altre questioni pregiudiziali, il ricorso è presentato da tutti gli eredi.

Il Giudice dà incarico a un professionista di predisporre un progetto divisionale, oppure la vendita dei beni non comodamente divisibili.

Se non ci sono opposizioni il Giudice dichiara esecutivo il progetto.

Violenza sulle donne

I comportamenti persecutori sono definiti come “un insieme di condotte oppressive, sotto forma di minacce, molestie, atti lesivi continuati che inducono nella persona che le subisce un disagio psichico e fisico e un ragionevole senso di timore”.

È la modalità ripetuta nel tempo, contro la volontà della vittima, che caratterizza le condotte persecutorie.

Si può presentare querela, recandosi da un avvocato o presso un Comando Arma dei Carabinieri o Ufficio di Polizia. Si può richiedere l’ammonimento del soggetto autore di tali comportamenti persecutori.

No, gli atti persecutori possono esser posti in esser da chiunque, anche al di fuori di rapporti di diretta conoscenza personale.

Lo si riferisce alle Autorità competenti. In tal modo l’autore viene perseguito penalmente senza più la necessità che la vittima presenti querela.

La persona offesa dai reati di maltrattamenti in famiglia, violenza sessuale nelle sue varie articolazioni, stalking ed altri che implicano violenza alla persona, può essere ammessa al patrocinio a spese dello Stato anche in deroga ai limiti di reddito previsti dal presente decreto.

L’Avvocato potrà spiegare le modalità per compilare la domanda.

Nessun comportamento o provocazione messi in atto dalle donne giustifica la violenza da loro subita. Teniamo presente che la maggior parte dei fatti di violenza sono premeditati.

Dal messaggio che ne deriva: la violenza psicologica induce la vittima a pensare di essere una persona priva di valore. In questo modo la donna che la subisce diventa disponibile ad accettare in seguito anche comportamenti violenti, essendo stata “convinta” dal soggetto abusante che se li “merita”.

Se la donna non è pronta a denunciare il soggetto maltrattante, si può cominciare con il richiedere l’ammonimento del Questore.

Si può sporgere denuncia o querela anche nel caso di un singolo episodio di violenza quale lesione personale (art. 582 c.p.), ingiuria (art. 594 c.p.), violenza privata (610 c.p.), minaccia (612 c.p.), molestia (660 c.p.) e maltrattamenti in famiglia (art. 572 c.p.).

Nel caso di violenza sessuale il tempo utile per la querela è prolungato fino a dodici mesi e la querela è irrevocabile; in alcuni casi può essere procedibile d’ufficio.

Si, si possono chiedere provvedimenti cautelari, che emette il Giudice.

Con il provvedimento che dispone l’allontanamento, il Giudice prescrive all’abusante di lasciare immediatamente la casa familiare, ovvero di non farvi rientro, e di non accedervi senza l’autorizzazione del Giudice che procede.

L’eventuale autorizzazione può prescrivere determinate modalità di visita. Qualora sussistano esigenze di tutela dell’incolumità della persona offesa o dei suoi congiunti, il Giudice può prescrivere all’imputato di non avvicinarsi ai luoghi abitualmente frequentati dalla persona offesa (luogo di lavoro, domicilio suo e dei congiunti).

Il Giudice, su richiesta del P.M., può anche ingiungere il pagamento periodico di un assegno a favore delle persone conviventi che rimangano prive dei mezzi adeguati a causa della misura cautelare disposta.

Nulla. Anzi, le madri hanno il dovere morale e giuridico di proteggere i propri figli dalla violenza, anche solo assistita, cioè di cui siano solo spettatori.

SI, trattandosi di atti di sopraffazione, reiterati nel tempo, tali da offendere l’integrità psico-fisica, il patrimonio morale, la libertà e l’onore del soggetto passivo. 
Non è necessario, quindi, che vi siano condotte di aggressione fisica.

Licenziamenti, NASPI e COVID

Tale offerta è  la somma predeterminata che il datore di lavoro propone, a titolo di conciliazione, al lavoratore che ha impugnato il licenziamento e che, in caso di accettazione, comporta la risoluzione della controversia al di fuori delle sedi giudiziali.

È stata introdotta dal Decreto Legislativo n. 23/2015 (contratti di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti) che all’art. 6 prevede appunto che tale offerta venga avanzata dal datore di lavoro  entro il termine di impugnazione del licenziamento, ovvero 60 giorni dall’intimato licenziamento.

Questa somma è pari a una mensilità per ogni anno di servizio e non può essere inferiore a 3 e superiore a 27 mensilità per le aziende che occupano più di 15 dipendenti; non deve essere inferiore a 1,5 e superiore a 6 per le aziende che invece occupano 15 o meno di 15 dipendenti. 

La risoluzione consensuale è un accordo tra datore di lavoro e lavoratore per porre fine al rapporto di lavoro. Si tratta di una specie di conciliazione in base alla quale l’azienda invia – obbligatoriamente – alla Direzione Territoriale del Lavoro la comunicazione del licenziamento per giustificato motivo oggettivo con l’indicazione dei motivi e delle eventuali misure di assistenza alla ricollocazione del lavoratore. Seguirà un tentativo di conciliazione presso la commissione di conciliazione. Qualora il tentativo di conciliazione sfoci in una risoluzione consensuale del rapporto di lavoro, il lavoratore avrà diritto alla NASPI.

La predetta risoluzione consensuale è disciplinata dall’art. 7 L. n. 604/1966 (modificato dall’art. 1 comma 4 della L. n. 92/2012).

L’indennità mensile è pari al 75% della retribuzione

Sì, quando: 

– a seguito di contenzioso giudiziario o a seguito di trattativa stragiudiziale, viene reintegrato nel posto di lavoro con diritto al percepimento di tutte le retribuzioni perse dal giorno del licenziamento a quello della reintegra; 

– a seguito di dimissioni per giusta causa motivate da un illegittimo trasferimento, il lavoratore non radichi una causa giudiziale al fine di dimostrare l’effettiva illegittimità del trasferimento impostogli.

NO, la responsabilità del debitore va – in questo caso – valutata tenendo conto anche delle misure di contenimento imposte al debitore nel periodo di riferimento, oltre alle altre circostanze quali: importo delle morosità, durata temporanea della stessa, condotta improntata a correttezza e buona fede del conduttore.

SI, la parte che deduce l’estinzione del rapporto è tenuta a dimostrare ai sensi dell’art. 2697 c.c. la sussistenza di un fatto idoneo alla sua risoluzione, ossia la volontà esclusiva datoriale, anche se espressa mediante comportamenti concludenti.

NO, L’eventuale rifiuto del dipendente non consente la configurabilità di una causa soggettiva legittimante il licenziamento del lavoratore.
Qualora le mansioni non possano essere svolte in Smart-working e il dipendente non sia altrimenti impiegabile, si potrà procedere alla sospensione dal lavoro senza diritto alla retribuzione.

Smart-working e Coronavirus

E’ una modalità di svolgimento del lavoro, in base a un accordo tra le parti, esercitato fuori dai locali aziendali con il supporto di un computer e di un collegamento a internet.
In base agli accordi fra le parti, il lavoratore può non essere vincolato a rispettare un particolare orario e può portare a termine i suoi compiti gestendosi come meglio ritiene.
Lo Smart Working prevede periodi svolti in azienda alternati ad altri all’esterno, in base alla sua legge istitutiva n. 81/2017.
No, non è necessario. La citata legge lo prevede per il telelavoro ma non per lo smart working.

Sì, il datore di lavoro potrà decidere unilateralmente di far svolgere le prestazioni lavorative dei propri dipendenti in regime di Smart working fino al 15 ottobre 2020, data in cui cesserà – salvo ulteriori proroghe – lo stato di emergenza.

A differenza del Telelavoro, la prestazione lavorativa in Smart working può essere svolta in qualunque luogo (non vi sono vincoli spaziali e orari) mediante l’utilizzo di strumentazione che consenta di lavorare da remoto (quali, ad esempio, Tablet, Pc o Smartphone).

Si, al pari di qualsiasi altro dipendente, anche il lavoratore che svolge la propria mansione in regime di Smart working è soggetto alla disciplina generale sui licenziamenti.

Ad oggi, il genitore di un figlio minore di anni 14 ha diritto a svolgere la sua attività in Smart working se:

  • il figlio sia con lui convivente;
  • l’altro genitore non sia lavoratore in congedo o a casa per qualsiasi altro motivo;
  • la quarantena deve essere stabilita da provvedimento dell’autorità sanitaria.

 

Si, l’INAIL considera infatti “la causa virulenta equiparata a quella violenta” e quindi collegata al rapporto di lavoro.

Sì, la negligenza e l’imprudenza del lavoratore per non aver utilizzato i dispositivi di protezione non sono ritenuti idonei ad escludere la responsabilità del datore di lavoro.

Ha responsabilità sia sotto il profilo civile che sotto il profilo penale. 

Anche nel caso abbia seguito le misure di prevenzione del contagio poste dai vari protocolli nazionali e territoriali, in quanto la giurisprudenza richiede di adottare tutte le misure idonee nello specifico contesto aziendale.

Altri argomenti

Secondo la Suprema Corte di Cassazione, sez. IV penale, sentenza 16 dicembre 2020 – 31 marzo 2021, n. 12142, sussiste il reato di rifiuto di sottoporsi ad accertamento del tasso alcolemico anche quando il conducente, pur non essendosi opposto all’accompagnamento in caserma, una volta ivi giunto, rifiuti l’alcoltest.

l decreto – legge n. 44/2021 ha introdotto l’art. 3, che esenta da responsabilità penale per omicidio colposo e lesioni colpose i sanitari che somministrano il vaccino per  la prevenzione delle infezioni da  Covid 19  nel  corso della campagna vaccinale straordinaria, quando l’uso  del  vaccino è conforme  alle indicazioni   contenute   nel   provvedimento    di autorizzazione all’immissione in commercio emesso dalle competenti autorità e  alle circolari pubblicate  sul  sito  istituzionale  del  Ministero  della salute relative alle attività di vaccinazione.