coronavirus

Licenziamenti e NASPI in periodo di COVID

di Bruno avv. Bellisai

L’emergenza Covid ha coinvolto diversi aspetti del mondo del lavoro, non ultimo quello riguardante il divieto di procedere ai licenziamenti.
Il D.L. n. 18 del 2020 ha sancito la nullità del licenziamento intimato successivamente al 17 marzo 2020 e allo stato attuale fino al 21 marzo 2021 in base alla legge di Bilancio 2021.
In tale periodo, ogni licenziamento per giustificato motivo oggettivo deve ritenersi nullo e non solo inefficace, con operatività della tutela reale (obbligo di reintegra ex art. 18 Stat. Lav. e art. 2 D.Lgs. n. 23/2015).

I licenziamenti sono tutti vietati?

No, in quanto rimangono ancora intimabili i licenziamenti:
– per cessazione dell’attività;- per fallimento, quando non sia previsto l’esercizio provvisorio dell’impresa;
– per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa;
– in presenza di accordi collettivi aziendali di incentivazione alla risoluzione dei rapporti di lavoro stipulati con le organizzazioni sindacali rappresentative a livello nazionale.

Il lavoratore licenziato e indennità di disoccupazione.

In tutti i casi in cui il lavoratore perde il lavoro involontariamente, egli avrà comunque diritto a percepire la NASPI (Nuova Assicurazione Sociale per l’Impiego operativa dal 1° maggio 2015, detta anche Disoccupazione).

Chi può prendere la NASPI?

Oltre ai casi di perdita incolpevole del lavoro, la legge stabilisce che la NASPI spetta anche in caso di:
– dimissioni per giusta causa;- risoluzione consensuale del rapporto avvenuta nell’ambito della speciale procedura di conciliazione preventiva presso
– l’I.T.L. (ex Direzione Territoriale del Lavoro) prevista dall’art. 7 della L. 604/1966, così come modificato dall’art. 1, comma 40 della legge 92/2012 (tale ipotesi non applicabile agli assunti con contratto a tutele crescenti);
– licenziamento con successiva accettazione dell’offerta conciliativa ex art. 6 del D. Lgs. 23/2015;
– licenziamento disciplinare, con impugnazione dello stesso;
– risoluzione consensuale del rapporto di lavoro intervenuta in sede protetta (attraverso la procedura di conciliazione presso la Direzione Territoriale del Lavoro competente) o avvenuta a seguito del rifiuto del lavoratore a trasferirsi presso un’altra sede della stessa azienda, purché tale nuova sede disti oltre 50 KM dalla residenza del lavoratore o sia raggiungibile in 80 o più minuti con i mezzi di trasporto pubblici.

Requisiti essenziali per ottenere la “disoccupazione”

Per poter accedere alla NASPI, oltre alla perdita involontaria del lavoro, il lavoratore deve anche essere in possesso, congiuntamente, dei suddetti 3 requisiti:
– essere in stato di disoccupazione;
– avere almeno 13 settimane di contribuzione nei 4 anni che precedono l’inizio del periodo di disoccupazione;- avere 30 giorni di lavoro effettivo nei 12 mesi che precedono l’inizio del periodo di disoccupazione;
– non essere titolare di Partita Iva.

La NASPI è corrisposta mensilmente per un numero di settimane pari alla metà di quelle di contribuzione degli ultimi 4 anni, ha la durata massima di 24 mesi e ha come premessa l’immediata disponibilità al lavoro del richiedente.

SMART WORKING e CORONAVIRUS: prospettive e criticità.

di Bruno avv. Bellisai

Quella che si presentava come una strada obbligata per continuare l’attività economica durante la pandemia da Covid-19, si rivela essere un’importante novità per ristrutturare e riorganizzare il mondo del lavoro.

La recente notizia che un’impresa come Eni, con 21 mila dipendenti in Italia, programmi di adibire il 35% degli stessi in Smart working anche dopo la cessazione della pandemia in corso, dà l’idea di quali scenari si prospettano in un prossimo futuro. 

Il lavoro agile (L. n. 81 del 2017) e la ristrutturazione delle imprese

Il lavoro a distanza è visto in principalità come occasione per ridurre i costi, soprattutto strutturali (uffici, mobilio, mense e gestione interna del personale); e sicuramente a tale scopo il lavoro impiegatizio di tipo amministrativo è il più indicato, mentre mansioni rigorosamente tecniche meno si adattano.

Ai lavoratori agili viene inoltre garantita la parità di trattamento economico e normativo rispetto ai colleghi che eseguono la prestazione lavorativa con modalità ordinaria.

Certo è che la diffusione del lavoro agile determinerà una maggiore flessibilità del lavoro e dei relativi tempi, con forte ricaduta positiva anche in ambito ambientale.

Lo Smart working è positivo sotto tutti gli aspetti?

Naturalmente no: non vanno, infatti, sottaciute alcune delicate problematiche che il lavoro agile comporta:

  • l’applicazione delle disposizioni in materia di sicurezza sul lavoro
  • Il contributo dell’azienda ai costi legati alla connettività
  • L’idoneità degli spazi domestici adibiti ad ufficio
  • Il diritto alla disconnessione (art. 19 della L. 81 del 2017)
  • Sicurezza dei dati aziendali, gestiti e utilizzati all’esterno

Tali aspetti presentano notevoli criticità e dovranno essere oggetto di interventi normativi e regolamentari.

CORONAVIRUS: che cosa accade ai contratti in corso

di Bruno avv. Bellisai


Decreto Cura Italia e contratti di locazione, di prestazione continuata, di attività d’impresa.

L’emergenza sanitaria determinata dal diffondersi del Coronavirus ha comportato l’emanazione di provvedimenti da parte dell’Autorità che, inibendo in tutto o in parte le attività d’impresa o professionali, hanno inciso in modo significativo nell’adempimento dei contratti in essere, già conclusi e stipulati.

Il decreto Cura Italia, infatti, nell’art. 91 D.L. n. 18 del 17 Marzo 2020 recita “Il rispetto delle misure di contenimento di cui al presente decreto è sempre valutata ai fini dell’esclusione, ai sensi e per gli effetti degli articoli 1218 c.c. – Responsabilità del debitore – e 1123 c.c. – Risarcimento del danno -”

L’ordinamento prevede comunque norme specifiche: artt. 1218, 1256, 1464, 1467 c.c.

L’art. 1467 c.c. riguarda i contratti a esecuzione continuata o periodica, ovvero differita, che riconosce a colui che deve eseguire la prestazione la facoltà di chiedere la risoluzione del contratto quando la stessa è divenuta eccessivamente onerosa per fatti straordinari e imprevedibili a lui estranei.

L’art. 1256 c.c. in materia di inadempimento contrattuale, prevede l’estinzione dell’obbligazione quando, per causa non imputabile al debitore, la prestazione diventa impossibile.

Se tale impossibilità è solo temporanea, il debitore finché essa perdura non è responsabile del ritardo nell’inadempimento.

E’ possibile recedere o essere rimborsati?

Devono, tuttavia, sussistere determinati requisiti per invocare detta impossibilità sopravvenuta: i provvedimenti devono essere estranei alla volontà dell’obbligato e non devono essere ragionevolmente prevedibili.

Situazioni che sicuramente ricorrono nel contesto di emergenza sanitaria da Coronavirus.

Una volta cessata la suddetta impossibilità, tuttavia, il debitore deve comunque eseguire la prestazione, salvo eccepire l’eccessiva onerosità sopravvenuta.

Nell’eccessiva onerosità sopravvenuta, a differenza dell’impossibilità assoluta, la risoluzione del contratto può essere evitata con la decisione di modificare equamente le condizioni del contratto.

E se l’impossibilità della prestazione è parziale? 

L’art. 1464 c.c. prevede l’impossibilità parziale della prestazione in base alla quale la parte ha diritto a una riduzione della prestazione dovuta, potendo anche recedere dal contratto se non vi ha più interesse.

Significativa risulta l’applicazione di tale assetto normativo alla situazione attuale.

Lavoro e CORONAVIRUS: responsabilità penali per inosservanza norme.

di Nicoletta avv. Capone


In realtà, nulla di nuovo sotto il sole, eccetto il Coronavirus.  

Il decreto Cura italia* considera il contagio da coronavirus in ambito di lavoro come un infortunio meritevole di ricevere la copertura assicurativa Inail.  L’Inail, dal canto suo, ha precisato** che le malattie infettive e parassitarie, come il Coronavirus, sono inquadrate nella categoria degli infortuni sul lavoro e, come tale, pone un potenziale profilo di responsabilità penale per il datore di lavoro che non abbia adottato le misure necessarie a prevenirne il rischio.

Responsabilità del datore di lavoro in tempo di coronavirus.

Il datore di lavoro che non osserva le norme antinfortunistiche è punibile***. Tale condotta omissiva ha rilevanza causale solo rispetto a quei soggetti che, come i datori di lavoro, rivestono una posizione di garanzia, ossia hanno l’obbligo giuridico di impedire il verificarsi dell’evento lesivo, in virtù della particolare relazione che li lega al bene protetto. 

In sostanza, per il datore di lavoro – che per legge ha l’obbligo giuridico di evitare che il lavoratore si ammali nell’ambiente lavorativo – non impedirlo equivale a cagionarlo.

Fattispecie dolose possibili?

Verosimilmente il datore di lavoro si troverebbe a rispondere del reato di lesioni  colpose di cui all’art. 590 c.p. oppure di omicidio colposo ai sensi dell’art. 589 c.p. qualora al contagio sia seguita la morte, con l’aggravante di aver violato le norme antinfortunistiche (art. 590, comma 3, c.p.) o comunque di non aver adottato tutte le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica sono necessarie a tutelare l’integrità psicofisica dei lavoratori.

La normativa statale di riferimento è il Testo Unico Salute e Sicurezza sul lavoro (D. Lgs. n. 81/2008 e sue successive integrazioni e modificazioni) il quale coordina tutte le norme in materia di salute e di sicurezza dei lavoratori nel luogo di lavoro e stabilisce una serie di interventi da osservare per il miglioramento della sicurezza e della salute dei lavoratori.

Ora, posto che l’infezione da Coronavirus rientra nell’ambito delle malattie infettive e parassitarie, incombe sul datore di lavoro ai sensi dell’art. 2, comma 6, del DPCM 26 aprile 2020 l’obbligo di osservare il protocollo condiviso di regolamentazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus Covid-19 negli ambienti di lavoro, sottoscritto dal Governo e dalle parti sociali.

La semplice inosservanza di una delle norme del DPCM è sufficiente a determinare una responsabilità penale? 

La risposta è: forse no, ma è molto rischioso.

La particolare virulenza del Coronavirus comporta una notevole difficoltà di escludere altre possibili cause di contagio, quali la vicinanza ad altre persone positive in luoghi diversi quali la famiglia, negozi, luoghi di culto, mezzi pubblici, etc.

Pertanto, se è vero che spetta al lavoratore – e soprattutto alla Pubblica Accusa (art. 27 Cost.) – l’onere di provare “al di là di ogni ragionevole dubbio” che il contagio è avvenuto nell’ambiente di lavoro, è altrettanto inopinabile che il datore di lavoro si mette in una posizione di maggiore tranquillità processuale quando può dimostrare di aver adottato tutti i presidi indicati dalla legge per escludere ogni sua responsabilità.

Perché, allora, la previsione di una sanzione penale? 

Per ragioni di prevenzione generale: in altre parole, la difficoltà oggettiva di individuare con certezza pressoché assoluta il luogo del contagio da Coronavirus non deve costituire motivo di inosservanza od anche solo di allentamento delle misure protettive da parte del datore di lavoro, che l’obbligo giuridico ed ancor prima morale di proteggere i propri lavoratori.

*art. 42, comma 2 del D.L. n. 18 del 17 marzo 2020

**circ. n. 13 del 3 aprile 2020 

***dell’art. 40, comma secondo del codice penale